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Libia: posti in prima fila cercati e tolti, tra (dis)onori, oneri e reticenze

“Dovete scegliere tra la guerra e il disonore, state scegliendo il disonore ed avrete la guerra”. Parafrasando questa frase di Churchill con i tempi grammaticali cambiati (la pronunciò dopo Monaco, a cose fatte) e sostituendo alla prima parola guerra (ma non alla seconda) quello di intervento militare (nessuno vuole entrare in una vera guerra) si può riassumere la condotta italiana di questi ultimi anni in Libia. Le foto che ritraggono il nostro presidente del consiglio a cercare inutilmente un posto in prima fila (probabilmente cercando la targhetta con il suo nome sul pavimento) sono paradigmatiche della (non) considerazione che ha l’Italia nel contesto sia europeo che internazionale. In diplomazia nulla è a caso, anche se sembra casuale.

Tutti a proclamare che la conferenza di Berlino, svoltasi domenica scorsa, ha avuto successo. Ma la guerra riprenderà presto, come prima, o peggio di prima. Tutti i 55 punti (divisi in sei parti) sono stati accettati senza discussione. Appunto, i punti non sono stati discussi perché tutti sanno (fuorché forse l’Italia) che la grande maggioranza di questi non sarà mai implementata e rispettata.

Si è riusciti solo a produrre una fragile tregua (già violata anche se sporadicamente) necessaria per riorganizzare le forze. Non si parla nemmeno di sanzioni a chi violerà l’embargo in Libia… ma solo il rendere noto chi è stato. Si parla di monitoraggio della tregua, ma se poi non la fai rispettare, la tregua, puoi monitorare e basta quello che vuoi, tanto non serve a farla rispettare. Per iniziare nel migliore dei modi e dimostrare la sua buona volontà (si fa per dire) per intanto Haftar blocca tutti i pozzi libici in terraferma, assestando così un duro colpo all’economia di tutta la Libia. Ottimo inizio, non c’è che dire. Si inizia già a litigare: una risoluzione di USA, Italia, Germania e UK è stata respinta dalla Francia, che in maniera ipocrita e spudorata, da perfetta doppiogiochista, come spesso ha fatto e non solo in Libia, sostiene Haftar in tutto per tutto (tranne scaricarlo a sua volta quando non gli converrà più). Desiderosa di sopravanzare in Libia agli interessi economici ed energetici italiani. Sempre con la scusa (a uso e consumo interno) che noi italiani siamo gli infidi, quelli che l’hanno pugnalata alle spalle il 10 giugno 1940.

Chi riuscirà a far rispettare l’embargo, a monitorare la tregua, senza mettere forze in campo? E la Germania della Merkel rischierà di venir meno al duopolio con la Francia perla Libia? Non le conviene, è ben restia a farlo, a parte designare un blocco navale che favorisca guarda a caso Haftar, che ha dalla sua le porose frontiere dello sponsor Egitto, e che avrebbe come principale esecutore la nostra Marina Militare a far il loro gioco, l’unica, con la Francia, che nel Mediterraneo avrebbe i mezzi e le risorse per attuarla. Il danno e la beffa. Conte del resto propone sì la forza d’interposizione, ma a patto che venga dispiegata in una cornice di sicurezza già acquisita, dimenticando due o tre cose: che i militari si mandano per fare la pace dove non c’è, altrimenti basterebbe spedire i vigili urbani di Roma o la protezione civile di Vigevano, e che abbiamo già più di 300 militari a Misurata, e sarà interessante vedere cosa faranno se le truppe di Haftar si avvicineranno ancor di più alla città, ma soprattutto che militari italiani hanno combattuto e combattono ancora in conflitti asimmetrici a bassa (ma non tanto) intensità in tutto il Medio Oriente. Il recente ferimento di cinque militari delle SOF nel Kurdistan e le letali operazioni della famosa TF45(che hanno suscitato persino l’ammirazione degli Americani) in Afghanistan stanno a testimoniarlo, qualora ce ne se dimentichi. Arriviamo al paradosso che non vogliamo intervenire quando sono in gioco i nostri più significativi interessi geostrategici, ma siamo andati alla guerra per supportare quelli altrui, come in Afghanistan, appunto.

Berlino quindi cristallizza una situazione che non accontenta nessuno. Haftar è a un passo da Tripoli, vede i grattaceli della città (che conta quasi un terzo dell’intera popolazione della Libia), ha in mano la maggior parte della Tripolitania, oltre che l’intero Fezzan e la Cirenaica, ma senza Tripoli non riuscirà ad avere in mano le leve dello stato e le sue istituzioni principali, come abbiamo più volte riportato. Haftar sa che se non conquista Tripoli perderà sicuramente il potere e anche qualcosa di più. Sarà fatto fuori o dai suoi colonnelli o dai suoi sponsor irriducibili, quelli veri, dall’Arabia Saudita passando per l’Egitto.

Dall’altra parte un debole Sarraj deve la sua forza proprio alla sua debolezza, non essendo un pericolo per nessuno dei suoi sostenitori, nonché alle Milizie di Misurata che in realtà sono il suo pilastro principale, e che garantiscono anche da possibili colpi di testa di quegli stessi suoi sostenitori. Sarraj preso dalla disperazione, dopo aver fermato per mesi l’inefficiente offensiva di un Haftar supportato da mercenari di mezza Africa, da quelli russi (molto più efficienti), dai droni emiratini, dai soldi sauditi, vistosi alle corde, abbandonato nei fatti da chi lo aveva insediato (ONU, Italia, Europa, USA…) ha accettato il peloso aiuto turco e dei suoi mercenari, tagliagole siriani imparentati con Al Qaeda, gli stessi che hanno ammazzato barbaramente e con efferatezza Hevrin Khalaf attivista curda dei diritti umani. Ce ne sono già più di un migliaio in Libia.

Giustamente Caracciolo scrive che in Libia dovevamo rispettare tre regole, solo tre, per svolgere un’efficace azione: Primo: sapere quel che vogliamo. Secondo: individuare gli attori sul terreno con cui misurarci e negoziare. Terzo: avere a disposizione le risorse militari ed economiche – anche per affittare clienti, come fan tutti – necessarie ad avanzare la nostra causa.

Sono regole semplici e fondamentali che si trova in qualunque testo che spieghi la geopolitica e la difesa degli interessi nazionali, non occorre nemmeno scomodare Klausewitz.

E così, per non intervenire, innamorati delle belle parole, degli arzigogoli diplomatici, delle moine da cicisbei, senza sostanza e costrutto, senza comprendere che oramai è in grande vantaggio chi nelle trattative mette la pistola più grande sul tavolo (e non solo in senso figurato), senza capire che per ricreare la pace bisogna intervenire militarmente, ci siamo trovati scavalcati proprio dal sultano che minaccia le nostre navi da prospezione in Eastmed ed è fautore di un neo ottomanesimo che vuole proiettare la sua influenza in tutto quello che era stato l’Impero della Sublime Porta alla fine dell’ottocento. Senza aver ridimensionato ed arginato con fermezza Haftar all’inizio, quando potevamo farlo facilmente, senza aver delineato ad amici e avversari quello che veramente vogliamo e che siamo disposti a fare e a rischiare per ottenerlo, ci ritroviamo contemporaneamente contro Egitto, Grecia, Israele… proprio quelli che dovrebbero essere alleati in Eastmed. Un caos in cui ci siamo cacciati anche per nostra ignave colpa. E allora è ancora più chiaro il perché del penoso tentativo di Conte di trovare un posto in prima fila che non gli viene concesso. Stiamo perdendo il rispetto dei nostri stessi (falsi) alleati. Parenti serpenti. E se non siamo noi stessi, come nazione, ad avere rispetto di noi stessi in giro per il mondo, non possiamo pretendere che siano gli altri a darcelo, il rispetto.

E allora che fare? Come rialzare la testa? Seguendo quelle tre regole, appunto, ricrearci quel background di appoggi, di simpatie, di convenienze, di retaggi storici, di connivenze che ancora non siamo riusciti a disperdere, nonostante l’impegno perverso profuso dai nostri ultimi governi. Operare per i nostri interessi ma anche per quelli libici, dei suoi cittadini. Glielo dobbiamo, dopo il feroce colonialismo degli anni ’30 e i lager di Graziani. Garantire alla Libia, per noi e per la Libia stessa un futuro unitario al di fuori di ingerenze perverse che la vedono come terreno di scontro per beghe provenienti da lontano (ma non da troppo lontano).

Dobbiamo essere in Mediterraneo una potenza, anzi, la potenza equilibratrice, per la nostra stessa sopravvivenza e per la tranquillità di questa area critica. Ma l’equilibrio bisogna costruirlo, crearlo e mantenerlo. Noi non facciamo niente di tutto questo. Far capire ai contendenti e ai loro sponsor quanto siamo disposti a fare e a rischiare per raggiungere i nostri obiettivi principali, cioè appunto rendere stabile e pacifica quella zona di mondo, in maniera che non sia una minaccia costante per i nostri confini meridionali, armonizzare l’interscambio commerciale, appoggiarla con investimenti strategici in uno scambio armonico. Far soprattutto comprendere anche ai più refrattari la nostra determinazione ad attuarlo.

Siamo soli, non possiamo contare sull’Europa, capace solo di intervenire per proteggere gli interessi della Framania che già a sua volta, ottenuto il duopolio sul resto d’Europa, rischia di infrangersi per le contraddizioni interne e in cui la prima parte di questo nome ci ha remato contro fin dall’inizio e ha provocato, colpevolmente, scientemente, nel 2011 tutto questo caos. Non possiamo contare nemmeno sulla Grecia di cui siamo alleati in Mediterraneo Orientale, sicuramente non possiamo contare nemmeno sulla pelosa Turchia che mira appunto a sostituirci nell’influenza (residua) esercitata su quello che resta del governo riconosciuto dall’ONU. Con la Russia sarebbe più facile trattare, ma solamente se riusciamo a costruirci una credibilità determinata, appunto. E soprattutto sarà necessario trattare con essa, poiché all’ONU ha il diritto di veto.

Possiamo quindi sperare solo in un sostegno degli USA, (che tra l’altro hanno già messo a tacere gli isterismi greci) e di conseguenza UK, a nostro favore; convincerli che l’aiuto proposto da Egitto e Arabia Saudita per una pace in Palestina (per lanciare anche a livello internazionale il cognato di Trump), in cambio di un appoggio in Libia, è solo una fregatura, capace solo di spillare miliardi di dollari americani, poiché giammai gli attuali padroni della Palestina e di Israele vogliono la pace. Loro prosperano e si mantengono al potere grazie alla perenne conflittualità tra di loro. Il miglior alleato al potere di Nethanyahu è Hamas e viceversa. Gli USA tra l’altro sono favorevoli a qualunque iniziativa rompa il duopolio framanico sull’Europa. E poi qualcosa ci devono gli Americani, i nostri morti in giro per il mondo anche per le loro guerre li abbiamo avuti, purtroppo. Ma dobbiamo sapere che il loro aiuto, diplomatico, logistico, di “assicurazione militare” avrà senz’altro un prezzo. Prezzo gestibile e comunque molto inferiore alla completa perdita di controllo di quello che geograficamente rischia di franarci sotto i piedi anzi, sotto lo stivale.

Dobbiamo trattare con Misurata e vedere da che parte vogliono stare: con le sirene turche (dolci, perché una buona percentuale di misuratini sono turcofoni) o con noi possibilmente a guida di una coalizione con mandato ONU. Ma anche qui oramai dobbiamo dimostrarlo con i fatti, avendo perso di credibilità: inviando truppe, quindi.

Dobbiamo far capire agli sponsor di Haftar, ma anche alla sua stessa fazione, che quest’ultimo è persona altamente inaffidabile, anche per loro, e che finché c’è lui la pace sarà impossibile, come non sarà possibile quello che lui vuole, il completo dominio della Libia. Ma dobbiamo far capire che non permetteremo mai che una fazione elimini l’altra. Dobbiamo promuovere una risoluzione ONU che ci permetta di proteggere le sole istituzioni ancora super partes in Libia: NOC (National Oil Corporation) e la Banca Centrale, oggetti del desiderio di tutte le fazioni in campo. Seme da cui far ripartire la ricostruzione di uno stato unitario, o perlomeno largamente federale. Questo sarebbe un buon inizio, strappare definitivamente alle parti in campo, specialmente a Haftar, la speranza di impossessarsi di ciò che più conta nella battaglia per Tripoli.

Tutto questo vuol dire un cambiamento a 180 gradi della politica, o meglio della non politica finora fatta in Libia, ma è l’unica maniera per far sì che le parole di Churchill non si avverino un’altra volta. Più aspettiamo, più duro sarà il prezzo da pagare nel futuro. Forse non ce ne rendiamo conto, ma con l’indipendenza e la salvezza della Libia dai suoi signori della guerra e dai loro sponsor, e dalla conseguente guerra civile senza fine in atto è in gioco una bella fetta della nostra indipendenza e sopravvivenza geopolitica.

Roberto Hechich.