Clara Shumann on Liszt 49862

La Redazione Cultura del Movimento Roosevelt ed il sottoscritto intendono prima di tutto rendere omaggio a Robert Schumann (1810-1856) e a Franz (Ferenc) Liszt (1811-1886), di cui ricorrono rispettivamente i 160 e 130 anni dalla morte. Ambedue compositori eccentrici, tormentati e geniali : il primo sfidò ogni convenzione per coronare il suo amore con l’intraprendente Clara Wieck, prima di cadere nella follia, abbandonando i lidi mortali ad appena 46 anni; il secondo si dedicò sin da giovanissimo al pianoforte, girando l’Europa in tournee, ed eguagliando, per quanto fosse possibile al tempo, la celebrità di una odierna popstar (tema da cui prende spunto il grottesco Lisztomania del visionario cineasta britannico Ken Russell, autore anche di due pellicole, leggermente più seriose ma più riuscite, dedicate rispettivamente a Ciajkovskij e a Mahler). Liszt passò intanto attraverso svariati amori, l’ultimo dei quali con la principessa Sayn-Wittgenstein, ma sfuggì al matrimonio, facendosi abate a 54 anni. Entrambi massoni e studiosi di esoterismo, cercarono di rendere nell’arte la loro ispirazione spirituale, e ritennero a tal fine preferibile tra tutte la via della musica a programma.

Transcendental Étude di Liszt:



La musica a programma spiega a parole quel che vorrebbe rendere simbolicamente in musica – e, tanto per ingarbugliare le cose, la spiegazione stessa è simbolica. Ne sorsero paradossi come quello della Sinfonia “Fantastica” di Hector Berlioz (1803-1869), dove il programma – programma così profondamente romanzesco, raccontando di un uomo che, dopo essere rimasto travolto da una passione per una femme fatale, sogna, sotto l’effetto dell’oppio, di ucciderla, indi di venire condannato e giustiziato, e infine di reincontrarla in un sabba infernale – suggestiona quasi più della musica stessa, al punto che non stupisce vi sia chi, ispirandosi principalmente al programma e non alla musica, trovi parallelismi addirittura con Shining di Kubrick.

Johannes Brahms (1833-1897) fu l’oppositore più feroce della musica a programma, e il suo amico critico Eduard Hanslick sostenne che la musica non esprimesse altro che se stessa.

Liszt, durante la sua lunga carriera, tentò di raffinare la questione, ma Alessandro Zignani, in Il suono rivelato, Zecchini Editore, ironizza così (pp. 33-34): “L’estetica del frammento richiedeva una zoomata dalla Creazione al Creatore suo; del tipo ‘ vedete? tutti questi bei temi scollegati mi sono venuti in mente osservando i riflessi della luna sulla schiena di una foca monaca mentre pesca salmoni nel mare di Bering ’ […] far notare infatti come il primo tema venga esposto a specchio nella sezione modulante verso la ripresa a ponte della cellula germinale, fino a creare un tessuto motivico agglutinante, se il vostro intento è quello di ‘rimorchiare’ qualcuno, risulta poco efficace”.

Frattanto emergevano la figura e la poetica di Richard Wagner (1813-1883), ma neanche lui andava a genio a Brahms, il che costituiva certo un problema: risolto da Wagner parodiando Hanslick in I maestri cantori di Norimberga. Si registrarono risse tra i sostenitori di Brahms e quelli di Wagner, cui si aggiunsero quelli di Anton Bruckner (1824-1896) che aveva composto una Sinfonia ‘Wagneriana’, e pare strano oggi raccontare di tanto accanimento per una tematica in fondo meramente culturale, quando ci sono cose ben più importanti.

A ben vedere, Wagner non aveva però così tanta voce in capitolo, avendo composto quasi solo opere liriche, e nelle opere liriche ci vuole pure un programma. Tuttavia, il Parsifal, sua ultima opera, cui fece divieto di applaudire, considerandola una sorta di messa gnostica anziché una mera esibizione teatrale (vi sono anche coloro, tra cui il sottoscritto, cui sia capitato di percepire quella particolare energia, sollevando forse in parte Wagner dall’imputazione di delirio), contiene quell’enigmatico motto iniziatico che ricorre di tanto in tanto in opere di letteratura, di teatro come di musica: “Uscire dal tempo per entrare nello spazio”.

Mai chiariremo, mai chiariremo appieno, il senso di questa, se così possiamo chiamarla, suggestione. Ci piace piuttosto farne intuire il collegamento con alcune elaborazioni dell’odierna fisica quantistica: i quanti, questo è già più noto, per quanto saremo costretti a semplificare, sono le unità più piccole concepibili nell’universo o nel multiverso. Anche il tempo, allora, è costituito da quanti, da minuscoli pacchetti, disposti secondo una linea, o secondo un’altra, o secondo infinite possibili direzioni. Ma il Tempo in sé non esiste, consiste in questa successione di quanti che rimangono lì dove sono, laddove forse una scelta veramente libera è possibile ad un determinato livello di consapevolezza: comprendendo a fondo questo principio, ecco allora che si esce dal Tempo, ossia dalla successione predeterminata di quanti temporali, per intervenirvi secondo una certa qual libertà che risiede da qualche parte. Per il momento non ci soffermiamo oltre nella trattazione del tema, ricordando tuttavia quanto scrive ancora Zignani “All’alba dell’età romantica, Kant scoprì che il tempo è un pregiudizio della mente. Il tempo della mente, introducendo nell’economia delle cose l’illusione di una causa e un effetto, ammorba l’effetto sacrale della natura […] La musica, intervenendo sulla consequenzialità del tempo, curvandolo fino a diventare spazio – Forma in movimento – libera la natura dalla mente” (op.cit.,p. 54).

Considerato da alcuni l’erede sinfonico dell’operista Wagner, Gustav Mahler (1860-1911) è stato forse il culmine della musica colta, almeno di quella caratterizzata in certo modo (prima per esempio di sperimentazioni più ostiche), e di lui si potrebbero ricordare i 105 anni dalla morte, ma solo perché, a giudizio di chi scrive, fu già poco considerato, almeno nel nostro Paese, il centennale. Con lui, la musica a programma intanto si estingueva. Egli dichiarò: “La mia esigenza di esprimermi musicalmente inizia […] sulla soglia che conduce a un altro mondo, oscuro, il mondo in cui le cose non si scompongono più nel tempo e nello spazio”: pertanto, non vi erano più parole atte a rendere questa remota abissalità; e con lui e con molti altri, come per esempio Claude Debussy (1862-1918) – e abbastanza prima della composizione attraverso dodici suoni, poi dodecafonia, inventata dal cabalista Schoenberg e continuata da suoi allievi anche di elevatissimo livello, ma dalla maggior parte degli ascoltatori ritenuta eccessivamente faticosa –, avrebbe avuto inizio l’allentamento della forma tonale, a partire da alcune sue fondamenta: a partire per esempio dal rapporto di quinta, tonica-dominante, caratterizzante la stabilità. In sua assenza, la pianificazione della struttura dei rapporti sonori diveniva più aerea, spaziale: non che tutto non fosse già in nuce nel visionario Schumann e soprattutto in Liszt, quest’ultimo grandissimo sperimentatore, in particolar modo, potrebbe peraltro sembrare forse paradossale, dall’epoca in cui prese i voti.

Forse, in conclusione, circa un secolo fa, l’umanità aveva colto un’apertura, e, come poi spesso accade, l’aveva espressa attraverso l’arte: ora stiamo ancora cercando, forse in pochi, di capire cosa, in quell’ormai antica ma ancora mirabile occasione, fosse accaduto.

(Articolo del 3 marzo 2016)

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