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Inserito per specifica competenza all’interno dello spazio riservato al Dipartimento Istruzione MR

Scuola italiana e politica europea b537b
Con l’articolo che segue, continua il dibattito sulla scuola lanciato dal Dipartimento Cultura del MR. Con l’intervento di Marzia Ribecco si faceva il punto sulle riforme del sistema scolastico italiano, dalla legge Casati alla cosiddetta buona scuola di Matteo Renzi, sino ad analizzare in dettaglio le carenze evidenziate dalle recenti leggi di riforma, anche alla luce della loro concreta applicazione e sperimentazione [LA SCUOLA ITALIANA post del 26 Maggio 2016, clicca sul titolo per leggere].

Alessandra Bosco, dal canto suo, prospettava l’autenticità del momento educativo nella convergenza di cinque distinti fattori: 1)La consapevolezza dell’unicità dell’essere umano. 2)L’indivisibilità di mente e corpo nell’apprendimento. 3)Lo sviluppo armonico dell’individuo attraverso l’introduzione a pieno titolo nel curriculum scolastico delle arti e in particolare della musica. 4)Il metodo socratico nell’insegnamento. 5)La rinuncia ad un sistema educativo funzionale al modello di sviluppo economico [LA SCUOLA, IL METODO, LE ARTI post del 2 Giugno 2016, clicca sopra per leggere]. Nel suo intervento, Mario Mariani, nel ribadire il ruolo determinante dell’educazione nella formazione umana, sottolineava l’esigenza del superamento del sistema scuola, così come l’abbiamo sin qui conosciuto, con la rivitalizzazione del rapporto docente-discente, una didattica capace di stimolare la curiosità e l’interesse degli studenti, la liberalizzazione di vecchi ordinamenti e rigidi programmi ministeriali [SCUOLA E FORMAZIONE UMANA post del 13 Giugno 2016, clicca sopra per leggere].

Nell’intervento che segue, Giovanni Nulli offre alcune riflessioni sulla politica scolastica dell’Unione Europea, tutta orientata in funzione della professionalità e del mercato. Le istanze europee sono state recepite anche dal sistema scolastico italiano e sono alla base della nuova organizzazione della scuola: da una parte la scuola dell’autonomia, con il preside manager e con responsabilità di spesa e di gestione attribuite alle singole istituzioni, dall’altra con l’introduzione della cosiddetta didattica delle competenze, basata su innovazioni nei metodi di insegnamento e nelle pratiche di apprendimento. Ciò in teoria – osserva l’autore dell’articolo – non solo perché in un sistema scolastico antiquato come quello italiano, tutto si risolve in una valutazione standardizzata delle conoscenze, ma anche perché le competenze di cui va in cerca l’Unione Europea si traducono in concreto nell’organizzazione di una scuola del lavoro e del fare, ricalcata sul modello aziendale, laddove i grandi pedagogisti del passato, per competenze, intendevano il raggiungimento della consapevolezza da parte dello studente delle proprie capacità e dei propri limiti. In altri termini, nel paradigma di questa pedagogia che pure ha goduto di fortuna, soprattutto nel mondo anglosassone, il lavoro e il fare non sono mai fini a se stessi ma finalizzati ad esercitare la mente dei ragazzi. Una impostazione anche condivisibile quella di Giovanni Nulli e che offre spunti notevoli e interessanti per una riflessione sull’attualità dell’insegnamento. Per altro verso,tuttavia,l’idea che il lavoro e il fare siano utili ad esercitare la mente mi ricorda certe affermazioni del secolo scorso quando si sosteneva da più parti che lo studio del latino e del greco erano una sorta di palestra per il pensiero, in quanto “servivano a ragionare”. Perché non dire più semplicemente che lo studio della lingua e della letteratura classica serve a conoscere la nostra storia e le nostre radici? Che l’educazione alla manualità e al fare ricompone l’unità indivisa di mente e corpo?

Il direttore del dipartimento [Sergio Magaldi]



LA SCUOLA DELLE COMPETENZE

di Giovanni Nulli



Questo contributo si collega all'ottimo articolo di Marzia Ribecco sulla storia delle riforme della scuola italiana. In particolare al passaggio in cui si afferma che negli anni ‘90 a seguito degli accordi di Maastricht, inizia una frenesia riformatrice spinta dall'UE.

Il primo atto formale riconoscibile di tale spinta riformatrice è stato il libro bianco dell'istruzione. Con tale pubblicazione si cercava di far fronte al problema della disoccupazione giovanile, ma più in generale all'esigenza di rispondere alle sfide poste da cambiamenti radicali nel sistema economico mondiale: cadevano o erano cadute molte barriere commerciali e si stava affacciando l'era della new economy. La scuola era vista come profondamente inerziale e potenzialmente inadeguata a rispondere alle esigenze di formazione richieste dal mercato. Nonostante l’impronta fortemente economicistica di tale documento, che rispecchiava le indicazioni provenienti dall'Ue, la necessità del cambiamento era anche di tipo sociale, a prescindere dal giudizio di valore che se ne potesse dare.

Le risposte che il sistema Italia ha dato a livello scolastico sono riassumibili a mio avviso in due punti: didattica per competenze e scuola dell'autonomia.

L'introduzione del concetto di competenza (impostasi a livello europeo con il convegno di Bologna del 1999 e con il consiglio europeo del 2000, ed infine con le otto competenze chiave del 2006) riguarda l'ambito più squisitamente metodologico e pedagogico, dove per metodologico si intende la prassi quotidiana del docente e, per pedagogico, la scienza che studia i processi di apprendimento. Con scuola dell'autonomia, invece, si fa riferimento ad un cambio di paradigma organizzativo della scuola, introdotto dal ministro Berlinguer nel '99 e portato avanti senza soluzione di continuità fino alla legge 107 o della buona scuola. Mi soffermo brevemente su questo, per poi trattare più compiutamente il discorso sulle competenze. Con la scuola dell'autonomia, il preside diventa dirigente ed acquisisce responsabilità diretta sugli atti della scuola, che diventa punto di spesa autonomo; nel tempo questa autonomia è stata allargata anche all'organizzazione di parte del curricolo, ma, rimane, per esempio rispetto alle scuole inglesi, un'autonomia a forte guida centralizzata e locale. Questo argomento, di indubbio interesse per comprendere la scuola sotto il profilo organizzativo, non sarà, però oggetto di questo articolo.

Torniamo al discorso sulle competenze. Perché è stato introdotto questo termine? A quale tradizione fa riferimento? Quali vantaggi, se ce ne sono, apporta al sistema di istruzione e formazione? In che modo questo discorso è stato recepito dalla normativa italiana e dalla prassi scolastica?

Questo termine è stato introdotto, come accennato, per rispondere ad una società in forte mutamento: la scuola, come organizzazione non era più in grado di rispondere efficacemente né all'esigenze formative rispetto al mercato del lavoro, né a quelle sociali, rispetto alla capacità di essere cittadini consapevoli di quanto accade e ci circonda. I dati sull'occupazione giovanile nel primo caso e sull'analfabetismo funzionale nel secondo caso sono segnali significativi al riguardo.

La necessità di un cambiamento nel paradigma scolastico, sentito da molti docenti, si basa anche sul fatto che il modello di scuola così com'è risale agli anni 50 ed ha radici in un passato anche più lontano. Papert (programmatore e pedagogista allievo di Piaget, creatore del primo linguaggio di programmazione che serviva per apprendere, il Logo) scrivendo agli inizi degli anni ‘80, afferma che se si viaggiasse nel tempo dagli anni ‘30 agli anni ‘80, si vedrebbero le città, il modo di spostarsi radicalmente cambiato, mentre la scuola sarebbe pressoché identica. Con questo non si vuol criticare quel modello di scuola in assoluto. Esso ha assolto ad i compiti per i quali era stato pensato, ovvero quello di ridurre quasi a zero il tasso di analfabetismo, permettendo di creare la società del benessere diffuso degli anni ‘60. Ma ora il contesto è cambiato: nella società attuale il problema non è soltanto quello di erogare conoscenza, ma di saper utilizzare la conoscenza, saperla cercare e saper distinguere, e soprattutto saper apprendere continuamente.

La competenza introduce nel sistema scolastico il concetto di performance, di attività, rispetto ad un sapere altrimenti statico, erudito e fine a se stesso. Tale concetto è evidentemente mutuato dal mondo dell'organizzazione aziendale e, in particolare, la necessità di valutare il saper fare nasce in ambito di reclutamento aziendale: McClelland nel 1973 propose un test basato sulla competenza, perché i precedenti test di reclutamento basati sull'analisi dell'intelligenza, non riuscivano a spiegare il futuro delle performance dei reclutati. McClelland propone un modello a più dimensioni che comprende non solo la formazione, ma anche le attitudini, le caratteristiche personali, l’abilità e le conoscenze. Tutte queste caratteristiche vengono poi viste nell'individuo in azione. E la prassi diventa un laboratorio costante che mette alla prova le conoscenze acquisite e la capacità di saperne acquisire di nuove. In tutto questo, l'attitudine a saper riconoscere in ogni momento cosa si sa, diventa fondamentale.

I detrattori di questo tipo di scuola ritengono che tale modello sottometta la scuola all'economia (si veda questo recente articolo del prof. Salvatore Settis), e che il sapere sia perciò condizionato da un fine esclusivamente pratico. Sicuramente la politica UE ha una retorica centrata sull'economia anche quando parla di innovazione scolastica, ma la centralità del lavoro, inteso come attività pratica, è propria di molte pedagogie progressiste, che tendono a considerare l'attività pratica ed il lavoro come complementari all'attività di studio teorico, nonché come palestra entro cui far esercitare attitudini e saperi informali degli studenti.

In pedagogia, da Freinet che parla di laboratori e non di classi a John Dewey, che valuta l'esperienza come fattore centrale dell'apprendimento scolastico, a Maria Montessori che vede nelle mani altrettanti strumenti del pensiero (Dewey e Montessori tra gli iniziati citati da G. Magaldi in Massoni. Società a responsabilità illimitata, Chiarelettere, Roma, Novembre 2014), c'è una corrente di pedagogisti, che concentrano l'azione pedagogica sullo studente e che considerano l'attività pratica come una palestra della mente. Tali pedagogisti mettono al centro di tutto l'azione dello studente come colui che apprende e che deve essere libero di "agire" per costruire il proprio sapere. cioè per tutti e per ciascuno, perché partono da contesti difficili: Maria Montessori, da medico, ha iniziato a lavorare con bambini frenastenici, Dewey, con i ragazzi Molti di questi pedagogisti hanno un'idea di scuola inclusiva, delle periferie industriali di Chicago.

Pertanto, a mio parere, la scuola delle competenze può essere considerata a giusto titolo come una scuola incentrata sullo studente pur nell’ambito di una tradizione di sano progressismo pedagogico. Certo non è scontato che la direzione sia soltanto questa: le spinte all'addestramento tecnico, l’insegnamento in funzione della produzione di una futura professionalità, possono ridurre tale sistema a mera preparazione dell’operaio specializzato del domani. La retorica sui posti di lavoro nel settore informatico viene ripetuta costantemente ormai da diversi anni (si veda in proposito l'agenda digitale europea). Ma lasciare che la scuola delle competenze si traduca solo nella scuola del lavoro è riduttivo: il lavoro serve per esercitare la mente dei ragazzi e prima di tutto per farne dei cittadini consapevoli. Essere competenti significa, infatti, conoscere le proprie capacità e i propri limiti e saper utilizzare l’intelligenza con efficacia, nel mondo e con gli altri. È questa la consapevolezza di cui andavano in cerca i pedagogisti di cui sopra, al fine di costruire uomini democratici (Dewey) e uomini liberi (Montessori).

Pertanto, se è vero che la scuola delle competenze è sostenuta da una commissione europea che di certo non brilla per la volontà di emancipare i suoi popoli, concepire il rapporto educativo come una mera dimensione del lavoro e del fare è una riduzione ed un tradimento del sentimento progressista che ha animato tanti pedagogisti. E nell’attuale momento storico, la divisione su cui si è basata per necessità sociale la scuola in passato, sembra perpetuarsi nella tradizionale distinzione tra una visione aristocratica del sapere e una concezione meramente sussistenziale del lavoro.

Come si sta muovendo il sistema scuola? In questa fase, c'è una forte attenzione a livello istituzionale al discorso sulle competenze: i suggerimenti della commissione europea sono stati accolti, e già nelle indicazioni nazionali per il curricolo per il primo ciclo del 2007 (aggiornate poi al 2012), così come nella riforma del secondo ciclo di istruzione del 2010 si parla di traguardi di competenza. Di fatto però il sistema scuola italiano è tendenzialmente inerziale e poco ha recepito anche le stesse indicazioni nazionali. Si può aggiungere che, anche con gli inserimenti di cui sopra, le indicazioni rimangono prevalentemente circoscritte ad un testo che si basa sulla valutazione di conoscenze. Se a questo aggiungiamo che le prove nazionali (esame di maturità ed esame di terza media) sono praticamente identiche da molti anni, e che il sistema di valutazione adottato dagli insegnanti è anch'esso immutato (così come l'editoria scolastica, altro elemento del sistema scuola su cui sarebbe necessario spendere qualche parola), la scuola delle competenze è al momento piuttosto lontana dal realizzarsi compiutamente in Italia, senza tuttavia dimenticare l’esistenza di realtà educative in cui la si esperimenta con qualche efficacia.

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0 # LA SCUOLA DELLE COMNPETENZE NELLA REALTA'Mario Caruselli 2016-08-03 17:03
Qualche anno fa sono stato coordinatore Lombardia per le "Misure di accompagnamento al Liceo Economico Sociale", un lavoro ministeriale che si prometteva di promuovere la scuola della competenza. Ho conosciuto persone geniali e fantasiose che nessuno penserebbe mai potessero lavorare per il Ministero dell'Istruzione italiano.
Ma poi quando sono tornato dentro il mio liceo reale a Milano ho visto quanto le cose di cui parlavamo fossero lontane e improponibili. La scuola delle competenze, che si trova ormai in tutti i documenti ufficiali e tutte le indicazioni ministeriali, come se fosse realizzata; è talmente lontana dalla scuola reale da essere improponibile e avversata pressoché da tutti. Tutti la rifiutano, tutti la odiano, tutti la osteggiano. Per prima cosa gli studenti, poi i genitori, poi ancora i dirigenti. La scuola delle competenze è molto più difficile della scuola nozionistica; molto più difficile per tutti.
Per i professori che non possono più ripetere per l'ennesima volta quello che hanno sentito dire quando andavano a scuola loro 30 anni prima dal vecchio libro che hanno a casa. Per gli studenti, che devono seguire realmente le lezioni, devono fare domande, dialogare con i professori, scrivere, riflettere, fare lavori di gruppo, per tutto l'anno e non possono più imparare a memoria quello che il loro compagno bravo a scritto sugli appunti un'ora prima del compito. Non possono più recitare una pagina a memoria all'ultima interrogazione ed essere promossi. E molto più difficile per i genitori, che non si rendono conto di come possa accadere che loro figlio venga bocciato perché non ha competenza in una certa materia: "Ma sapeva a memoria le pagine del libro... non basta?" E infine è odiata dai dirigenti che non hanno alcuna preparazione in queste cose e che non vogliono che i docenti abbiano ulteriore potere nel costruire e ideare programmi basati su idee nebulose di competenza invece che sul libro di testo da imparare a memoria.
La scuola delle competenze, se si mettesse realmente in atto, comporterebbe una totale ristrutturazione degli istituti italiani, perché in pochi anni vi sarebbe un generale slittamento degli studenti verso gli istituti che vengono considerati di grado "inferiore". Milioni di studenti si affollerebbero negli istituti professionali e tecnici, un po' resterebbero nel liceo delle scienze umane (difficilissimo se fatto bene), pochissimi accederebbero allo scientifico, una ridottissima frangia di letterati e studiosi filologici al liceo classico.
Sarebbe un terremoto. Un terremoto che renderebbe la scuola italiana una cosa un po' più seria, ma è impossibile che si verifichi se gli stipendi dei professori rimangono gli stessi. Come ho detto già in un commento precedente, dalla riforma Gelmini a quella di Renzi, ancora non è stato applicato niente, niente di niente. Solo gli ordinamenti sono stati cambiati perché quello era obbligatorio, ma lo spirito della scuola, i metodi, le ragioni, le finalità; sono sempre saldamente legate alla riforma Gentile della scuola dei nobilotti di campagna che imparano frasi misteriose per far bella figura nei salotti. E non potrà cambiare in futuro.
Nessuno, come me, è disposto per 1500 euro al mese a studiare e lavorare, farsi criticare, farsi odiare, rischiare il licenziamento, per un ideale che disgusta tutti.
Quindi il discorso è morto prima di cominciare.
La lenta morte della scuola italiana fa parte del panorama generale.
prof. Mario Caruselli
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