News dalla Redazione

Pubblichiamo uno stimolante articolo di Bruno Montanari, docente universitario e intellettuale “di sinistra” che si sta avvicinando al Movimento Roosevelt.

Ribadiamo che il MR è un movimento politico (metapartitico) democratico, progressista e social-liberale, intento a proporre una tassonomia politologica in grado di abbandonare la classificazione tradizionale in termini di “destra”, “centro” e “sinistra” per definire le attuali posizioni politico-culturali e ideologiche.

Piuttosto, il MR suggerisce di fotografare la realtà di fine XX/inizio XXI secolo come il campo di battaglia per una contrapposizione ideologica e operativa siffatta: da una parte gli amanti della democrazia sostanziale e della giustizia e mobilità sociale quale contrassegno di una sovranità popolare non soltanto nominalistica, dall’altra i creatori e gli esecutori/declinatori- consapevoli o meno- di modelli politici post-democratici e neo-aristocratici.

Montanari inaugura, con questo intervento, la sua partecipazione al dibattito politico-culturale della comunità rooseveltiana.

Non condividiamo necessariamente tutte le idee e istanze interpretative di Montanari, ma ne conosciamo e apprezziamo l’onestà intellettuale, lo spessore umano e la capacità di offrire affascinanti stimoli per la riflessione politologica e filosofica sulla Contemporaneità.

Scrive dunque Bruno Montanari:

“Perché mettere in relazione la Politica con la Sinistra e con la robotica? Per alcune ragioni, che dirò più avanti. Ma soprattutto per una questione seria che balza immediatamente agli occhi: quella dell’ampliarsi della forbice sociale dipendente dal modo in cui l’operare dell’attuale capitalismo, che definirei sinteticamente tecnologico-finanziario, va configurando il mondo del lavoro

Comincio con il ripetere ciò che viene tritato ogni giorno da tutti media: che la Sinistra è in crisi ovunque in Europa, che “destra” e “populismi” sono in crescita e che ricevono il consenso da quelle aree della società che un tempo votavano “a sinistra”. Insomma, e limitandomi al contesto italiano, l’immagine che verrebbe fuori da questa descrizione è che la sinistra rappresenterebbe la borghesia medio-alta, intellettuale e colta, mentre la piccola borghesia e quelli che un tempo si chiamavano “lavoratori” sono rappresentati da una destra con venature populiste o da formazioni schiettamente demagogico-populiste. Poi c’è un altro mantra giornalistico mediatico, quello che sottolinea con sconcerto l’alto astensionismo elettorale. Per cui il partito che comunque vince le elezioni gode di una percentuale vantaggiosa sì, ma comunque al netto della percentuale degli astenuti. Come dire: è vero che hi avuto il 30%, ma se la percentuale dei votanti è stata del 60%, quel 30% è da valutare, in termini di capacità e forza rappresentativa, in relazione al 60% e non rispetto ad un ipotetico e fisiologico 80 – 90% (per non dire 100%).

Allora, se questo è quanto si sente e su cui si polemizza, o meglio ci si accapiglia, in Italia, e in modo indecoroso, tutti giorni, occorre dire che questa strada è senza via d’uscita per quella attività che chiamiamo ancora “politica”. E’ come pestare l’acqua nel mortaio, si sarebbe detto una volta! E questo vale per qualsiasi partito, e quindi anche per quelli che vorrebbero ricostruire una sinistra credibile e riconoscibile da una area che per tradizione dovrebbe appartenerle. Dovrebbero cioè, o almeno questo è il ritornello, saper parlare a quello che tradizionalmente si definiva “popolo della sinistra”.

Tuttavia, la domanda brutale è: oggi esiste ancora un “popolo”? Intendo una entità umana definibile come “popolo”. Domanda cruciale, dal momento che le moderne democrazie rappresentative hanno come elemento fondativo e legittimante proprio la sovranità popolare. Ebbene la risposta è No, per la ragione che oggi al popolo si è sostituita quella che in letteratura viene definita “moltitudine”. Tra i due termini esiste una differenza che ritengo specifica, legata ai processi identitari che il pensiero e la cultura politici hanno disegnato tra ‘800 e ‘900. Tale differenza è sintetizzata dalla espressione “soggetto collettivo”: il popolo lo è, la moltitudine no. Nel particolare che qui interessa, la “sinistra” si è costruita su.. e ha dato rappresentazione storico-politica ad un particolare soggetto collettivo: la “classe operaia”. Si badi: entrambe le espressioni “soggetto collettivo” e “classe operaia” sono costrutti del pensiero, che hanno dato voce e operatività storica ad una interpretazione e rappresentazione concettuale del fattore umano. Oggi si direbbe, con espressione terribile, hanno dato voce al “capitale umano”.

Occorre allora prendere le mosse da qui. In generale, l’espressione “soggetto collettivo” apre uno scenario più grande: quello rappresentato dal termine “soggetto”. Termine sul quale si è costruito il pensiero filosofico sia teoretico che pratico, filosofico-politico e giuridico in particolare, della “modernità”; dei secoli, cioè, che vanno, indicativamente, dal XVII fino a quasi tutto il XX. E’ il pensiero costitutivo di un processo antropologico-identitario che ha assunto i diversi nomi di “individuo”, “popolo”, “Nazione”, “classe operaia”, e che ha delineato quell’ambito temporale e spaziale che ha messo in forma quel soggetto istituzionale chiamato “Stato” (“assoluto”, “etico” o “di diritto”, qui non fa differenza). Al termine “soggetto”, nel contesto che ho rapidissimamente ricordato, il “pensiero moderno” associa altri due termini, che costituiscono il ponte tra il livello cognitivo e quello pratico, politico-giuridico; essi sono “ordine” e “legittimazione”. Come il primo è la premessa dogmatica per ogni forma di conoscenza vera della Natura, così il secondo è la garanzia del vero detentore dell’ordine che artificialmente regge l’associarsi degli uomini: il Sovrano (sia esso persona fisica o sistema costituzionale ed istituzionale, qui ancora una volta, non fa differenza).

Insomma, quando ancora oggi si parla di “popolo della sinistra” si evocano termini come “popolo” e come “classe” che rinviano a quello di “soggetto”, il quale a sua volta chiama in causa l’intero quadro culturale dal “pensiero moderno”. Ma allora, se si desidera allestire un “pensiero politico per la sinistra”, quello che è entra in gioco è il primo termine, “pensiero”. Ne segue che la domanda da farsi per prima, per quanto sconcertante possa essere e pur tuttavia mi sembra assolutamente lecita, è: oggi è ancora possibile allestire un “pensiero”? Perché, per allestire un pensiero, occorre ovviamente pensare. E allora le domande si rincorrono ed in misura ancor più radicale e sconcertante: è possibile oggi svolgere quella funzione cerebrale che corrisponde al “pensare”?

Ebbene, se il XX secolo è stato il secolo della “post-metafisica” e della “post-modernità”, il XXI credo che inauguri il tempo del post-pensiero. Se, infatti, quella funzione cerebrale che è “il pensare” tende a venir meno, per le ragioni che dirò, diventa impossibile dar forma al suo prodotto, cioè un pensiero con contenuti determinati. D’altra parte, ciò che oggi è ancora definita “politica” si manifesta nel linguaggio pubblico non più sotto la forma culturalmente elaborata di “visione della società” (sotto forma di “pensiero”, appunto), ma attraverso quella impressionistica dello spot, che non si rivolge alle teste, ma alle pance e con le relative ricadute: l’affermarsi degli estremismi in politica e del conflitto generazionale nell’ambiente sociale.

La questione che ho temerariamente aperta, quella del “post-pensiero”, è bisognosa di una spiegazione che la giustifichi, per le sue conseguenze sul piano antropologico e sulle relative ricadute sul quadro politico-giuridico-istituzionale che aveva allestito la “modernità”: l’uomo come soggetto, individuale e collettivo, e le Istituzioni di governo, Stato e organismi sovranazionali.

L’origine del fenomeno è nell’affermarsi di una tecnologia che per la prima volta nella storia dell’umanità non sostituisce l’agire del corpo, le “braccia”, ma incide su di una specifica porzione del cervello umano: in una parola, incide sulla “testa”. Questa tecnologia si chiama “robotica”, non come pupazzo automatizzato, ma come sistema intelligente, cioè come “intelligenza artificiale” nelle sue forme attualmente già evolute e in quelle che inarrestabilmente si svolgeranno in futuro.

La spiegazione del fenomeno è terrificante, ma semplice da comprendere, grazie alla spiegazione agile di un neuroscienziato di valore, Lamberto Maffei. Se il cervello umano è un muscolo, formato da porzioni diverse, dette - come è noto - “aree”, ciascuna delle quali è destinata ad una funzione, ne segue che tali aree vengono diversamente stimolate, cioè “allenate”, a seconda dal rapporto che il muscolo-cervello instaura con l’ambiente circostante. Ora, se si sviluppa una tecnologia che sostituisce le funzioni proprie di quelle porzioni del cervello che presiedono alla elaborazione della sequenza pensiero-linguaggio, ne segue che le relative funzioni tendono a ridursi in quanto le “aree”, che ad esse presiedono, sono progressivamente sempre meno allenate.

Si dirà: ma l’uomo continua a manifestarsi nel mondo in tutta la sua potenza; dunque, l’intelligenza artificiale non sostituisce l’uomo. Certo, questa osservazione è esatta; ma la domanda è: quale è il tipo d’uomo che sopravvive all’affermarsi dell’intelligenza artificiale? La letteratura in argomento, ormai copiosa e variegata nelle valutazioni del fenomeno, ha come obiettivo centrale della discussione il futuro dell’umanità sul piano delle condizioni socio-economiche conseguenti al modificarsi strutturale della fenomenologia del lavoro. Il tema radicale, però, salvo generici accenni, non viene analizzato: è il tema della novazione antropologica. In altre parole, attraverso quale funzione cerebrale il tipo d’uomo compatibile con l’intelligenza artificiale si rapporta all’ambiente? Quale area del suo cervello viene allenata?

Su questo punto il paragone con la rivoluzione industriale prima e con il fordismo poi possono essere esplicativi per uno specifico profilo, quello della configurazione antropologica: la creazione dell’uomo - massa. In breve, la rivoluzione industriale trasformò l’uomo da artigiano in tassello di una catena di montaggio. La conseguenza fu, grazie ad un “pensiero” costruito ed alimentato dalle categorie razionali della “modernità” (Hegel – Marx – Lenin), la costruzione teorica di quel soggetto collettivo definito storicamente “classe operaia”, con ciò che alla sua azione storica notoriamente seguì sul piano socio-politico.

Ciò che accade oggi, come conseguenza dell’affermarsi a tutto campo dell’intelligenza artificiale è quella di un uomo ancora “massa”, ma polverizzato in una solitudine corporea. Cambia, infatti, il suo rapporto con l’ambiente umano circostante, cioè con l’“altro” in generale, in primo luogo con il Tu e poi con il Noi. In altre parole, all’interno del contesto culturale del pensiero moderno a quella “massa” si poteva dare l’idea di essere un soggetto operante concretamente nella storia, nel quale il singolo poteva riconoscersi come un “Noi”, e in questo Noi (la “classe operaia”, appunto) sentirsi riscattato. Oggi, poiché quell’area cerebrale che presiede al “pensiero” è stata sostituita da quella sensibile alla immediatezza di effetti pulsionali propria della tecnologia dell’impatto, l’uomo-massa resta confinato entro la sua percezione corporea. Finisce inevitabilmente per chiudersi in un monadismo materiale, impossibilitato ad elaborare la dimensione del Tu e ancor meno quella del Noi. In altre parole: il nuovo uomo – massa è fatto di pancia, quindi non è in grado di riconoscere, come significativi per lui, quei prodotti cerebrali elaborati da quello che comunemente si definisce “pensiero”. E’ sensibile, invece, a quella tipologia di messaggi, che impattando i sensi della vista e dell’udito, ne stimolano il suo interesse sotto la forma della immediatezza dell’attrazione e della reazione emotivo-operazionale.

I riflessi pratici su quei piani dove l’uomo continua a svolgere la sua attività quotidiana, da quelli che lo riguardano come privato a quelli che lo toccano come membro di un contesto umano, sono tali da destrutturare l’intera antropologia esistenziale e socio-politica della modernità.

Con il venir meno dell’idea di soggetto, sul piano esistenziale evapora la relazione interpersonale, Io – Tu, che era protagonista della vita affettiva ed etica. Su quello associativo, viene meno quel Noi, che aveva dato luogo alle forme della “società civile” e della “società politica” edificatesi attorno alla soggettività istituzionale dello Stato.

Detto in breve: la tecnologia dell’impatto, nella quale robotica e sistemi mediatici sono strettamente integrati, sta destrutturando il mondo umano e politico del XX secolo. Emblematicamente, Amazon, Google, Facebook, e così via, hanno trasformato il mondo: da quello del commercio, dove l’utente può comprare di tutto senza incontrare mai, per definizione, un volto umano dell’altra parte, nemmeno quello della o del cassiere, a quello dell’amicizia. Hanno ridotto, infatti, la relazione umana ad esibizioni individuali di solitudine, confezionate per ricevere come risposta un emotivo “like”, e insieme hanno destrutturato il linguaggio e la grammatica, sostituendo la parola con segni e abbreviazioni sconcertanti. Non vado oltre; sappiamo tutti in che mondo stiamo vivendo. Solitudine e alienazione emotiva.

Questo fenomeno è la ricaduta antropologica del nucleo duro della “globalizzazione”, quello che ha liquefatto il significato ed il ruolo storico-politico del territorio. Il potere, nella sua effettività, si è trasferito da quello che Carl Schmitt aveva individuato come il campo proprio de “il politico”, il nomos della terra, alla competizione globale del capitale tecnologico-finanziario.

In un mondo fatto così, nel quale il pensiero è stato sostituito dagli spot, nel quale la sovranità statuale e le procedure democratico rappresentative sono alla merce della effettività del potere finanziario e tecnologico-mediatico, nel quale la dimensione esistenziale si è risolta in un solipsismo competitivo di massa, mi chiedo come possa esservi spazio per un pensiero politico, di qualsiasi orientamento. Ma dico di più, anche se mi rendo conto che l’affermazione è assai “politicamente scorretta”: se manca un “popolo”, cioè un’entità umana resa sufficientemente omogenea dalla “credenza” nella legalità (à la Weber) o da standard comportamentali comunemente diffusi (à la Dworkin o Coleman), come ne è possibile la “sovranità” e le relative forme rappresentative?

Cosa può fare allora una “sinistra”? Innanzitutto sottrarsi all’attrazione dell’immediatezza degli spot e avventurarsi nella “lentezza” del pensiero (rubo l’espressione a Maffei). Tornare a pensare. Dare forma di “soggetto”, cioè, a quel mondo di nuovi diseredati che è, e lo sarà sempre più in futuro, il prodotto della globalizzazione competitiva. Allestire un luogo ideale, grazie al quale uscire dalla solitudine del proprio corpo per riconoscersi in un Noi così grande e culturalmente robusto da avere e manifestare la forza materiale per fronteggiare l’invadenza effettiva dei potentati economico-finanziari. Scuola e lavoro sono i luoghi ove operare per formare l’idea di un uomo che si riconosca come “soggetto” umano e non semplice tassello di un universo tecnologico-mediatico. Il paradosso è che l’unico soggetto collettivo che sopravvive, ma non certo per “coscienza di classe”, è quello dei pensionati. A parte la battuta, mi si dirà: questo è di nuovo solo “pensiero moderno”. Rispondo: sì, perché, pur con tutti i suoi difetti e i suoi misfatti storici, è ancora un pensiero degno di questo nome; non vedo all’orizzonte un altro.”







REDAZIONE MOVIMENTO ROOSEVELT (www.movimentoroosevelt.com )





( Articolo del 1 marzo 2018 )