Prosegue con questo ottimo intervento di Alessandro Loreto e Ruben Giavitto la disamina della penetrazione Cinese in Africa tra neocolonialismi nuovi e vecchi, presunti o reali.
Cina e Africa; terza parte
In questo terzo documento riguardante la penetrazione della Repubblica Popolare di Cina a livello economico-politico-industriale e finanziario nel continente africano e le varie strategie messe in essere dal gigante asiatico, affronteremo e cercheremo di spiegare le modalità del procedere verso una lenta ma graduale espansione rispetto alle strategie dei paesi europei, che al contrario della Cina, hanno sì un rapporto storico culturale e tradizionalmente sociale con l’Africa, ma anche un pesante retaggio militare fatto di guerre, occupazioni, domini e sfruttamento delle popolazioni con conseguente ulteriore sfruttamento energetico, industriale, agricolo e delle altre risorse nel loro insieme.
È chiaro che tutto ciò ha a monte un controllo e un’egemonia politica delle classi dirigenti occidentali nei confronti di quelle africane: il dislivello di preparazione e competenze europee ha schiacciato in duecento anni, prima le tecnologicamente arretrate tribù ed etnie poi le ha sostituite con altrettante corrotte, mandatarie e controllanti per conto dei paesi coloniali. Eccetto rarissimi casi infatti, pochi illuminati statisti africani si sono resi conto e hanno reagito a ciò che veniva perpetrato a danno dei loro paesi e del continente africano tutto: chi di questi ha cercato di opporsi, tentando un cambiamento geopolitico alle dinamiche imposte dai paesi egemoni ed imperialisti, ne ha pagato conseguenze pesanti, spesso con l’eliminazione fisica.
Le singole potenze europee hanno ben chiara la capacità espansiva e la forza d’urto del progetto cinese: purtroppo anche qui si è costretti a fare la constatazione della fragilità di una politica strategica non uniforme e condivisa dell’Unione Europea. Dal punto di vista commerciale-energetico-infrastrutturale-finanziario, l’UE non ha un piano unico continentale di azione in Africa, come dovrebbe essere in un secolo di scambi e opportunità che si misurano su un piano globale. Un’Unione Europea forte e coesa potrebbe competere in Africa efficacemente e con buone possibilità di successo ai colossi cinesi e anche gli Stati Uniti, cosa che attualmente è molto distante dalla realtà, data l’assenza di una politica estera con una voce univoca. La situazione infatti è ben diversa e vede i singoli paesi dell’Unione che vanno per loro conto in ordine sparso (più che mai quelli affacciati sul Mar Mediterraneo), mettendo in campo ognuno per sé la propria potenza nazionale e sfruttando proprio, laddove vi è stato, quel retaggio coloniale, cercando magari di mettere in risalto le caratteristiche culturali e storiche di cui abbiamo già sopra scritto. Ne è un plastico esempio quello che attualmente sta succedendo in Libia, grosso e fondamentale Paese, una delle cerniere del Nord Africa, di importanza vitale per la stabilità di gran parte del continente nero e dei rapporti con altrettanto fondamentali nazioni europee. Ebbene, in Libia due paesi fondatori dell’Unione Europea come Italia e Francia si muovono in maniera opposta nella complicata e scivolosa situazione. Entrambe hanno sul territorio enormi interessi energetici in generale, e petroliferi in particolare (con ENI è Total): fin dal 2011 con la caduta del regime di Gheddafi, che con tutti i suoi limiti democratici aveva però garantito per ben 42 anni stabilità nell’area, le potenze occidentali ed europee hanno dato prova di scarsa lungimiranza politico-strategica e diplomatica, non avendo chiaro quello che sarebbe potuto capitare dopo la caduta del colonnello libico. Frettolosamente si è contribuito a dare la spallata finale a Gheddafi, senza preparare preventivamente una fase di passaggio transitoria per arrivare gradualmente ad una condizione accettabile e possibilmente democratica per il popolo libico. Errori simili, in politica estera, hanno un conto salato e si pagano anche per decenni e ci sentiamo di dire che le responsabilità di Gran Bretagna, Francia e in parte degli Stati Uniti appaiono chiare, evidenti e dirette. Come già detto, nel contesto libico la posizione italiana sin dal 2011 è stata non da protagonista come avrebbe dovuto essere, nonostante fosse un paese occidentale all’interno della NATO, dell’UE, ma soprattutto con forti radici storiche e culturali nella regione mediterranea e con la Libia in particolare. Solo in quest’ultimo periodo la nostra diplomazia sta affannosamente cercando di riguadagnare una posizione autorevole. In una situazione che dura ormai da otto anni, gli interessi in gioco sono tanti, le alleanze in ballo spesso mutevoli e inserite in una partita geopolitica più ampia e articolata. Non da ultimo, uno scenario interno che vede scontri e vendette tra fazioni politiche e militari che si combattono per il controllo di uno stato ormai dilaniato. Il premier Al Sarraj (riconosciuto dall’Onu) e il generale Haftar ne sono gli attori principali: entrambi spalleggiati da potenze internazionali che sicuramente poco guardano agli interessi del popolo libico e che purtroppo ancora una volta non hanno una visione lunga e strategica in una crisi così importante e destabilizzante per tutto il Nord Africa. Anzi, dobbiamo constatare con non poca preoccupazione che con i loro tatticismi spericolati (e da capire fino a che punto calcolati), le potenze straniere coinvolte sul territorio libico spesso non fanno che gettare benzina in una situazione già di per sé paurosamente incendiaria. Oltre alle nazioni già citate, recitano un ruolo forse ancora più importante anche Russia, ma soprattutto Egitto, Turchia, Emirati e Qatar. Questo a corollario finale per inquadrare una complicata vicenda di politica internazionale.
Anche in questo lavoro (come del resto già nei precedenti), abbiamo ritenuto doveroso da parte nostra cercare di spiegare e far capire a chi legge il nostro pensiero, anche attraverso un discorso ampio e spesso a ritroso nel tempo, sul perché la Repubblica Cinese, sfruttando volta per volta gli errori e le contraddizioni dei paesi occidentali come sopra descritto, abbia potuto consolidare con una lenta ma inesorabile strategia la sua posizione. Con investimenti per centinaia di miliardi di dollari, la Cina ha fatto del continente nero un asset fondamentale del progetto transcontinentale e transoceanico che è la Nuova Via della Seta (formalmente conosciuta “Belt and Road Initiative). Nel suo modo di procedere la Cina ha esercitato una realpolitik trattando direttamente con i singoli stati, forte del non avere un retaggio fatto di pesanti ingerenze o rovesciamenti di governi o regimi locali. Altro vantaggio importante è quello di non avere a che fare con un’opinione pubblica che tradizionalmente nei paesi democratici considera l’Africa come un problema e non come un’opportunitá.
L’Occidente continua a leggere l’espansione cinese come un progetto imperialista e neocolonialista; una lettura dovuta in larga parte al pregiudizio degli Stati Uniti, che da tempo hanno individuato nell’ascesa politica e diplomatica cinese il proprio nemico. Per altri osservatori invece, più che un progetto imperialista, quello della Cina assomiglia a un Piano Marshall 2.0.
Concludiamo ricordando che all’inizio di questo secolo (XXI), furono soprattutto gli Stati Uniti d’America a far entrare con diversi vantaggi la Repubblica Popolare di Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Questi vantaggi, concessi inizialmente, sono rimasti tali e non più rinegoziati. Ma la Cina non è rimasta quella di venti o trenta anni fa, della globalizzazione ne è diventata protagonista assoluta; per ora seconda potenza economica del mondo dietro solo agli americani, ma con serie possibilità di prenderne la leadership nei prossimi decenni.
Alessandro Loreto
Ruben Giavitto