News dal Dipartimento Beni Culturali

note sul pensiero occidentale
I tempi sono maturi, o forse no, ma vorrei iniziare a porre, tramite uno schema piuttosto basilare, una questione molto articolata, ma credo non secondaria, e forse stimolante, quantunque più di metodo che di merito.

Quale potrebbe essere, quale sarà, quale riteniamo giusto che sia, la metodologia di approccio e di confronto, ma anche di raffigurazione nostra in qualche modo a-priori, rispetto a coloro che reputiamo, reputeremo, o abbiamo già classificato, quali forze, entità ed attori politici divergenti rispetto alla nostra causa?

Si è già parlato, nel corso di alcune discussioni all’interno del Movimento Roosevelt, di compromesso e di rifiutarlo, naturalmente. D’altra parte mi pare che lo stile di talune posizioni classificabili come “populiste”, di vario genere, si qualifichi nel fomentare l’odio in modo se vogliamo anche ozioso e sterile.

La storia del pensiero occidentale, della quale sono forse indegno studente, può magari venirci in aiuto nel delineare certi principi: Platone e il suo maestro Socrate, poi i Neoplatonici, cui assocerei anche gli Stoici, nell’affrontare la problematica morale, sancirono che non vi possa essere uomo malvagio; quel che appare come malvagità è ignoranza: l’uomo è dapprima interessato al proprio bene, poi al bene delle persone vicine, infine, via via che la sua coscienza si espande, al Bene in sé. Ma, che sia limitato o espanso a seconda del livello della sua coscienza, egli è sempre volto al Bene. Saltando millenni di storia (Hobbes non la pensava così, ma ammetteva di essere il prodotto di un’epoca di paure, Spinoza sì, ma solo considerando gli uomini quali emanazioni di un Bene più alto – anche se non credo abbia usato la terminologia plotiniana di “emanazione”, probabilmente poco geometrica per i gusti del filosofo olandese –, Rousseau sì, ma solo in uno stato di umanità incontaminata e in qualche modo potenziale), si segnala l’ultimo forse che si pose la questione in maniera veramente partecipe e viscerale: Schelling, uno dei protagonisti dell'idealismo tedesco dell'Ottocento. Dopo un’iniziale adesione ai principi platonici, egli virò in breve tempo su una psicologia di tutt’altro tipo, secondo la quale l’uomo può essere facilmente orientato verso il male, e sarebbe ingenua filantropia non ammetterlo.

Riconosco che oggi, dopo Auschwitz e similia, la posizione di Schelling possa apparire più realistica, eppure la concezione di Socrate conserva ancora una sua razionalità: cosa può volere l’uomo, ogni uomo, se non il bene, più o meno espanso a seconda dell’espansione della sua coscienza? Certo, non solo dalla razionalità è guidato l’uomo, nel suo pensare e nel suo agire, ma anche e forse prevalentemente da componenti irrazionali, viscerali, se non addirittura morbose e/o patologiche.

Io comunque resto dell’idea che una comunicazione basata sul disprezzo o sulla rabbia nei confronti dell’avversario sia energeticamente poco centrata.

Ho detto che la questione che avrei posto avrebbe riguardato più il metodo che il merito; tuttavia, senza cedere al tranello di un’oziosa speculazione, mi rendo conto che il tema etico principale possa essere rilanciato quale tematica essenziale, anche e, nel nostro contesto, soprattutto politica.

Esistono buone o cattive politiche (in senso etico) e, nel caso, vi è chi propende per una strada o per l’altra? È relativamente difficile che le classi dirigenti si persuadano che – come proposero Bentham e John Stuart Mill – “il bene maggiore del massimo numero” sia un traguardo altamente auspicabile?

Talvolta, quella che possiamo concepire come una possibile deformazione del rapporto tra la coscienza e realtà, consiste in ciò che in esoterismo è indicato con la denominazione di Eggregora, con ciò intendendo un pensiero collettivo talmente predominante da assumere in certo qual senso vita propria: una sorta di moloch, stando alle descrizioni molto suggestive e tumultuose che ne fa, col suo stile peculiare, Eliphas-Levi.

Victor Hugo, nel suo ultimo romanzo, Novantatré, evoca il dissolversi del moloch dell’Ancient Regime sull’onda della Rivoluzione Francese e del Terrore, senza condannare i singoli uomini ancora rimasti, per così dire, là ove regnavano le tenebre. In Die Zauberberg (La montagna incantata o La montagna magica) di Thomas Mann (grande massone e di sincero spirito europeista al pari di Hugo), il percorso iniziatico intrapreso dal giovane Hans Castorp, simboleggiato dal suo soggiorno di 7 anni in una casa di cura (senza essere malato) e calamitato dal massone repubblicano Settembrini, viene bruscamente interrotto dall’avvento di un altro moloch: la I Grande Guerra. Quell’intorpidimento delle coscienze che, isolando i frutti più elevati del pensiero occidentale, le precipitò nell’orgia cannibale del Fascionazismo, sarà ancora oggetto – in tutte queste ed altre sfumature – del capolavoro della maturità di Mann, Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, mentre elegiaco suona uno dei suoi ultimi romanzi, L’eletto. Qui, come in ogni concezione tragica dell’esistenza partorita dalla fascinazione della cultura occidentale per la dimensione del patetico e del catartico, è una colpa e la dura espiazione della stessa a fare del protagonista un eroe: come lo fu (tragico) Edipo, come furono santi nel mantenersi nella Fede i discendenti di Adamo ed Eva, fino all’avvento di Cristo ed oltre. Ancora oggi, tralasciando un’eventuale dimensione individuale (quella per esempio del “male di vivere”), periodicamente dobbiamo forse espiare, attraverso guerre, crisi di proporzioni internazionali abnormi, inimicizie ed intolleranze, una colpa che neanche conosciamo, ma che, come il tema del Fato nelle sinfonie di Beethoven, Ciajkovskij, Mahler, sempre, torna a martellarci?

Virginia Woolf scrisse “Intellectual freedom depends upon material things. Poetry depends upon intellectual freedom”. Se la grande finanza internazionale, o chi per essa, privandoci poco alla volta delle condizioni di benessere materiale che il mondo occidentale duramente ha conquistato, ci negasse di conseguenza anche quella sovrastrutturale libertà intellettuale che ci fa parlare di bene e male, e di poesia, di quella sete di conoscenza che è, secondo l’Antico Testamento, all’origine del nostro peccato, non torneremmo a una condizione di beata, amniotica indifferenza?

E’ possibile che la decadenza della cultura occidentale (che, scansando fieramente talune esasperazioni moraleggianti, assume a tratti per noi le dimensioni di uno scandalo di cui non ci si capacita mai appieno) stia nel fatto che vi sia chi abbia già accettato di ripiegare lungo questa via? Ma, come suggerisce Luca, 13,24, “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno”. Appare doveroso tenerci abbracciati a quella libertà di pensiero, frutto di affaticate conquiste ed ora tra i nostri più alti tesori – ora, che non ne rimangono molti –, che ci permette tanto di discernere, come anche di sognare, secondo l’insegnamento dell’ispiratrice del nostro Movimento e soprattutto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani : “Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni”.

(articolo del 4 luglio 2015)

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