Chiara Lanzi – Dipartimento cultura MR
TRE PRIORITA’ PER UNA POLITICA CULTURALE
MAGGIORI INVESTIMENTI IN CULTURA
Le statistiche concordano nel segnalare l’Italia come fanalino di coda in Europa per percentuale di spesa in cultura (e anche in istruzione!); a fronte di ciò, abbonda la retorica – strumentale e priva di fondamento – che vuole l’Italia in vetta, tra i paesi del mondo, per abbondanza di beni culturali.
Le future politiche culturali dovranno aumentare considerevolmente gli investimenti in cultura, a cominciare da quelli per la tutela e la gestione del patrimonio, per poi passare agli incentivi alla produzione d’arte contemporanea e, più in generale, allo sviluppo delle attività culturali.
Come investire questi soldi? Prima di tutto con un esponenziale aumento delle professionalità (sia a livello statale che a livello locale, attraverso un vero ed efficace dialogo tra Stato e Regioni) soprattutto laddove il patrimonio è più fragile e meno presidiato, ovvero sui territori, anche quelli più marginali e misconosciuti a livello mediatico, ovvero quelli che hanno meno appeal turistico. Cultura e turismo – sia detto per inciso e al di là dell’attuale congiuntura politico-amministrativa che ha traghettato il settore turistico dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari, Forestali e del Turismo - non debbono infatti essere considerati tappe parallele di un percorso: il turismo è troppo invischiato in questioni economiciste e, oggi come oggi, con la sua massificazione scriteriata spesso fa male al patrimonio e alla comunità; mentre la cultura deve essere la “base sicura” nella formazione di cittadini integri (quindi prima è necessaria una seria “sanificazione” del comparto culturale e poi ci si potrà occupare con efficacia di turismo).
Le ultime tendenze politiche hanno invece marciato in senso opposto, dando attenzione e risorse ai grandi musei a scapito dei piccoli musei e del patrimonio diffuso sui territori; concentrando ulteriormente il turismo di massa su poche tappe culturali e perdendo di vista l’obiettivo della formazione del senso civico; favorendo lo sviluppo di eventi culturali a danno della cura e tutela costante del patrimonio e dei suoi legami – sanciti dall’art. 9 della Costituzione italiana – con il paesaggio, anch’esso condannato dall’assenza di piani paesaggistici di tutela, salvaguardia, riqualificazione (si potrebbe anche valutare, tornando a questioni di competenze e denominazioni ministeriali, di ritornare a un accorpamento tra Beni Culturali e Ambientali, come quando nel 1974 il Ministero fu istituito da Giovanni Spadolini).
I compiti principali che tali professionalità dovranno da subito accollarsi corrispondono a obiettivi fondamentali (come tali da sempre avvertiti, anche prima della nascita del Ministero), ovvero la catalogazione dell’immenso patrimonio culturale italiano (attraverso un uso calibrato delle tecnologie digitali che potrebbero anche aprire a nuove più illuminate prospettive in campo turistico) e azioni di conservazione preventiva, smettendola di sventolare i restauri come eventi ben spendibili dai media (mentre si tratta di operazioni estreme, messe in atto quando ormai il paziente – l’opera d’arte - ha una patologia grave e conclamata che doveva essere evitata con cure preventive).
TUTELA DELLE PROFESSIONI CULTURALI
Servizio civile, tirocinii, borse di ricerca, apprendistato, contratti a progetto, stage retribuiti e non, prestazioni occasionali... lavoro gratuito... nessun contratto… e poi un numero altissimo (il più alto, secondo la CGIL - spaventosamente più alto - tra tutti i settori lavorativi) di partite IVA, di solito non aperte per scelta, ma obbligate per poter lavorare con chi del patrimonio è titolare (almeno per ora!) ovvero il pubblico che, nel frattempo, è stato privato di qualsiasi operatività… ovviamente – ça va sans dire – raramente i contratti e i salari corrispondono all'impiego svolto!
Insomma, come è stato detto, una vera e propria giungla di contratti. Ecco cosa significa lavorare nel mondo della cultura oggi, con tutto ciò che comporta - materialmente e psicologicamente - a livello di precarietà e sicurezza personale.
Questa giungla nasce dalla narrazione sempre più diffusa e radicata che il lavoro culturale sia un non-lavoro, sovrapponibile al volontariato, gestibile da chiunque anche da chi non abbia un profilo adeguato (come a dire, ritornando alla metafora medica, che va bene farsi operare da chiunque e non necessariamente da un chirurgo… ma attenzione perché potremmo pure arrivarci!).
Una nuova politica culturale dovrà quindi occuparsi seriamente della tutela delle professioni culturali, mettendo un freno allo scriteriato ricorso al volontariato e alla svalutazione delle professionalità specifiche.
Oggi invece sempre più si assiste, da parte di grandi o grandissimi istituti culturali italiani, a proposte di convenzioni con associazioni di volontariato per affrontare compiti delicatissimi quali la vigilanza, la fruizione, l’accoglienza.
Queste idee, purtroppo ormai già radicate e diffuse, se non compensate da politiche adeguate, porteranno a uno svilimento ulteriore della cultura stessa che sarà sempre più lasciata senza controllo, professionalità e metodo. La conservazione del patrimonio si indebolirà sempre più. La qualità della proposta culturale si pervertirà sempre più.
In prospettiva si apre una visione futura spaventosa e inquietante in cui gli italiani saranno privati della loro base culturale (che poi è base emotiva, spirituale e psichica).
Un grosso colpo in questo senso fu dato dalla Legge Ronchey (4/1993) approvata all’unanimità (caso raro nella storia repubblicana italiana) in piena Tangentopoli che all’articolo 4 introduceva i servizi aggiuntivi a pagamento per i musei e gli istituti di cultura dello Stato e all’art. 3 apriva alle organizzazioni di volontariato per assicurare “l’apertura quotidiana, con orari prolungati, di musei, biblioteche e archivi” dello stesso… Fu l’inizio della fine!
RINSALDARE I LEGAMI CON LA SCUOLA E LA RICERCA
Nuove politiche per la cultura italiana dovranno far sì che il patrimonio culturale diffuso possa davvero costituire un libro di testo per gli scolari italiani.
Si dovrà avverare quanto auspicava Roberto Longhi, uno dei più grandi storici dell’arte di sempre, ovvero che “ogni italiano dovrebbe imparar da bambino la storia dell’arte come una lingua viva, se vuole avere coscienza intera della propria nazione".
Oggi invece la didattica del patrimonio culturale è per buona parte nelle mani di sevizi esternalizzati (introdotti dalla citata legge Ronchey) che hanno ovviamente a cuore la propria prosperità economica più che una corretta e metodica divulgazione.
Bisognerà quindi pensare di reintrodurre, al posto delle esternalizzazioni, una nuova titolarità pubblica dei servizi divulgativi ed educativi, con risorse interne e adeguatamente formate e professionalizzate.
Bisognerà adottare politiche di vera sinergia tra Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca: politiche che favoriscano non solo il rapporto con la scuola, ma anche la reintroduzione della ricerca nei musei e negli istituti culturali e nelle Soprintendenze, oltreché misure a favore dell’accessibilità della cultura per tutti i cittadini, sulla strada di una piena gratuità dell’offerta culturale.