News dal Dipartimento Beni Culturali

Dal Festival del Cinema di Venezia
Raccontava, senza spiegare, Carmelo Bene, di “essere parlato”, di essere attraversato da voci. È ciò che succede ad ogni artista, il quale sceglie non solo, o non tanto, razionalmente, un soggetto, né tantomeno il suo trattamento, bensì è nella condizione di farsi condurre dalle pulsioni che ha colto per così dire in interiore homine, ovverosia nelle profondità di un’umanità colta collettivamente come principio di un mondo: ed è l’attimo, trasposto in durata, l’Ereignis, in cui l’opera d’arte si dà, a suggerire uno svelamento di quel che velatamente, come umanità, stiamo edificando.

Che il latino-americano presidente della Giura Alfonso Cuarón abbia assegnato il Leone d’Oro e quello d’Argento rispettivamente al venezuelano Vigas e all’argentino Trapero dimostra come egli si sia voluto inserire in una lunga tradizione che ha visto nella Presidenza della Giuria di Venezia la valorizzazione anche di un tratto personale, in qualche modo soggettivo e autoreferenziale. Ciò non deve distoglierci dallo sforzo di cogliere un file rouge, almeno il più appariscente, nel raggruppamento dei film in concorso (non c’erano neppure granché i margini, mi ha assicurato uno dei selezionatori, affinché questi ultimi potessero imprimere alla selezione una propria cifra: più o meno, quel che è arrivato è arrivato).

Se non proprio una dimensione politica, è parsa forte in questa selezione un’attitudine che, mentre affonda lo sguardo nel mondo, ne coglie rifrazioni nel perdersi e ritrovarsi del vagabondare dell’uomo, e viceversa. È, per esempio, lo sguardo dell’apparecchio fotografico che, eterno e imperturbabile (nell’immortalare l’immagine), smonterà le illusioni di un’aristocrazia chiusa nelle sue torri d’avorio (Marguerite di Xavier Giannoli), laddove di quello sguardo, di quell’occhio, si fa, come da tradizione di certo cinema visionario francese, simbolo onnisciente di evocativo rimando esoterico.

Ma è l’Europa con le sue passioni ad essere sottoposta al vaglio dello sguardo più saggio che, antico nelle sembianze ma straordinariamente atemporale nelle intuizioni, ci raggiunge dalle remote lande russe: quello di Aleksandr Sokurov, che, dopo un Faust poco filologico ma ricolmo di magnetismo, vincitore a Venezia 2011, si conferma uno dei maggiori cineasti viventi. Con questo Francofonia ha forgiato un cine-zibaldone di raffinatissimo carattere contemplativo, intervallato da impennate visionarie (dipinti che si animano, una conversazione via skype con il capitano di una misteriosa imbarcazione che trasporta opere d’arte nel mezzo di una furiosa tempesta) e dall’evocazione della vicenda del Louvre sotto l’occupazione nazista: l’aristocratico tedesco Wolff-Metternich ama la cultura francese e crede in un’Europa unita dall’arte, cercando di collaborare col direttore francese del museo Jaujard. Chi scrive affronta con riverenza e quasi imbarazzo la ricchezza immaginativa e speculativa del cineasta russo, con le sue incommensurabili sfumature, ma certo colpisce come egli abbia a cuore l’Europa e ne intraveda le dinamiche interne che ne hanno accompagnato il percorso: l’Europa unita (perché altro non può essere, per il Russo che ha trasposto Goethe) ora dalla cultura, ora dalla paura, l’Europa che in certi passaggi drammatici si disunisce per i nazionalismi, i populismi, il ricorso alle armi. E ci rendiamo conto di come il gioco di certi ambienti di potere sia di tenere l’Europa unita sotto la paura di un’opzione incognita e comunque preventivamente resa impraticabile (si pensi alle vicende greche), titillando al tempo stesso più o meno battagliere ambizioni disgregatrici; mentre, solo un’Europa unita dalla cultura, detronizzati i ricattatori politici europei più vili, potrà essere il sentiero da seguire in un’ottica progressista, fraterna coi popoli.

Sempre da Oriente sono arrivate due delle pellicole più interessanti e rivelatrici delle turbolenze della contemporaneità. L’Israeliano Amos Gitai, con Rabin, the Last Day, in una maestosa contaminazione tra passi documentaristici e passi di fiction (ispirati però sempre a fatti rigorosamente ricostruiti attraverso atti o testimonianze – o perlomeno, così sostiene categoricamente il regista) ripercorre l’assassinio di Yitzhak Rabin (1922-1995), primo ministro israeliano per un periodo durante gli anni Settanta, e dal 1992 alla morte: deciso, con il suo entourage, a concludere negoziati di pacificazione con la Palestina, fu minacciato e accusato di tradire il proprio popolo, mentre maledizioni venivano pronunziate contro di lui da alcuni capi religiosi. Fu infine eliminato a colpi di pistola da un fanatico sionista che una fetta del popolo israeliano avrebbe poi acclamato come eroe, mentre quella terra di scontri senza fine sarebbe precipitata nell’abisso di un vorticoso crescendo di violenza ed odio. Gitai indica molto precisamente nell’ambiente della destra di Netanyahu il mandante morale dell’attentato, mentre la Commissione d’inchiesta Shamgar, intanto che rivelava alcune sorprendenti lacune nella sicurezza, non fu nelle possibilità, per i limiti del suo mandato, di pronunciarsi sui possibili nessi tra la persecuzione nei confronti di Rabin da parte dei suoi avversari, e il clima di odio che avrebbe portato alla tragedia della sua fine e della fine della diplomazia.

Ferita e spaventata è anche, sempre più, la terra ottomana, la fascinosa Turchia, che si è presentata a Venezia con Abluka di Emin Alper (premio speciale della giuria). Il film, nonostante alcune manchevolezze tecniche, è denso di un’atmosfera pregna di derive allucinatorie e incubotiche che turba e seduce: ciò senza trascurare ben circostanziati riferimenti simbolici che ne esibiscono l’ispirazione antigovernativa. Contro un governo, quello di Erdogan, profondamente tentato da derive antidemocratiche e autoritarie, secondo tecniche ben rodate in quella lobby, la lobby dei Bush – cui Erdogan pare affiliato –, tra le quali quella di diffondere ed esasperare la paranoia del nemico esterno – prima appositamente creato – per affidare ai servizi governativi il potere di porre ai margini della legalità cittadini vittime di arbitrio. Curiosa è in questo senso la presenza reiterata, sullo sfondo dei sobborghi ove la vicenda è ambientata, di certuni grandi grattacieli paralleli che richiamano all’inconscio collettivo l’immagine delle Twin Towers, mentre i protagonisti rimangono sospesi in un mondo di squallore minaccioso, servizi segreti ambigui e intimidatori, arcani rituali. Non è questa la sede per sviscerare a fondo il tema dell’ISIS/Iside, accenneremo soltanto, per sommi capi, che, mentre l’Iside Svelata è l’archetipo femminile materno e santificato (Regina Coeli), l’Iside Velata è la matrigna terribile, vivificata dalle pulsioni sottocutanee e sotterranee, indicibili, velate appunto. Alcuni identificano, forse sommariamente, questa Iside terrifica con Hathor: la Ur-Lodge cui accennavo, quella “della vendetta e del sangue”, ha eletto Hathor a propria icona. La discesa nel disordine e nell’inciviltà congegnata appositamente da questi deviati circoli filogovernativi viene resa nel delirio di uno dei personaggi che sostituisce un lupo selvatico all’archetipo femminile dell’amata.

Il premio di maggiore importanza assegnato durante questa settantaduesima edizione della Mostra di Venezia è però, a parere di chi scrive, quello per il restauro di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini: ovviamente, non è tanto il premio al pur eccellente restauro, quanto al capolavoro che a tre quarti del secolo scorso piombò come una meteora, con spregio dell’orrifico, a rendere con una visionarietà e una lucidità insuperabili l’orgia, pressoché incontrollabile dunque pressoché sempiterna, del potere. Rimosso a lungo, ha visto in quest’occasione il primo riconoscimento mai conferitogli, ed è momento di festa, perché l’opera ha potenza senza eguali. Tra le dichiarazioni con cui Pasolini presentò il suo film estremo, una fra tante appare ancor oggi intricata pur nella sua auto-evidenza: “Ormai l’eros non può essere gioia come nelle epoche considerate repressive, ma soltanto nevrosi, in quanto non è realizzazione di una libertà conquistata, ma esecuzione di una libertà concessa”. Vengono alla mente cantori della latitanza del sentimento quali Cronenberg o Kubrick. The Danish Girl di Tom Hooper indaga allo stesso tempo il tema cronenberghiano e burroughsiano del desiderio come contagio, quasi alterazione percettiva, perdita di se stessi (a prescindere da qualsiasi connotazione moraleggiante, ovviamente): nel film il pittore danese Einar Wegenar (1882-1931) scopre la propria transessualità esplorando se stesso, ma ispirato dalle suggestioni fornitegli dall’arte pittorica e dall’osservazione dell’amata moglie, Gerda, pittrice anch’ella. Einar si sottoporrà a uno dei primi interventi di cambio di sesso, divenendo Lili, ma andando incontro al decesso per complicazioni sopravvenute a seguito dell’operazione: il film lo celebra come uno dei pionieri della Transgender Theory, ma se la questione risulta posta in questi termini appare innanzitutto filosofica e rimanda, ancora una volta, a Cronenberg, quello di M. Butterfly o Crash per esempio, che mostra come nulla che ci sia offerto come dato biologico possa risultare, nell’accumularsi di sovrastrutture, alcunché cui soggiacere, legando in una medesima occorrenza Eros e Thanatos; Einar-Lili raggiunge il suo sogno di femminilità, coltivato attraverso la sua ipersensibilità agli stimoli perturbanti dell’arte, ma subito perisce, Eros e Thanatos rivelandosi come una cosa sola. Senza dilungarci sulle deliziose qualità visive (talora di chiara derivazione pittorica) e drammatiche del film, vorremmo porre The Danish Girl in contrapposizione con una distopia facilmente hollywoodiana, Equals di Drake Doremus, in cui è sempre un contagio, una suggestione, ad aprire il torrente della passione in un futuro di uomini e donne anaffettivi, ma questa volta vedendo in essa una scontata salvezza in vista di un lieto fine povero di elaborazione.

Per concludere con i quattro italiani in concorso, Bellocchio, Messina, Gaudino e Guadagnino (tra tutti, quest’ultimo maggiormente oggetto di polemiche) si sono distinti in modo particolare per un interesse verso differenti declinazioni di un approccio estetizzante – anche nelle sfumature crepuscolari, sempre esibite nella finezza di un’elaborazione formale. Se la ricercatezza stilistica, a tratti addirittura freddina, è una delle modalità tramite le quali si tenta di afferrare e timidamente affermare una possibilità di rinascita del cinema nostrano, ci rendiamo conto che era forse anche questo un punto da rassettare (come sembrano pensare anche altri autori, un nome su tutti quello di Sorrentino), nel mentre si auspica non sia precluso tornare ai fasti di un cinema italiano ricolmo di ispirazione ed ebbrezza.

(articolo del 21 settembre 2015)