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EPIC MMT A fine Gennaio Mario Draghi ha annunciato al mondo intero, e in particolare ai mercati finanziari, il lancio di una politica monetaria “non convenzionale” per rilanciare le economie Europee, combattere la deflazione e gli alti tassi di disoccupazione dell’Eurozona, portando così il vecchio continente fuori da una recessione che dura ormai da più di 5 anni.

1.080 miliardi per 18 mesi complessivi, 60 miliardi al mese, pompati dall’Eurotower direttamente nelle economie europee stagnanti.

Il termine “alleggerimento quantitativo” o Quantitative easing è stato coniato in Giappone a metà degli anni ‘90, dove per la prima volta sono state implementate questo tipo di operazioni.Si tratta, essenzialmente, di operazioni di scambio di titoli contro moneta che coinvolgono le banche private e la banca centrale di un paese. L’autorità monetaria acquista i titoli detenuti nei portafogli delle istituzioni di credito, di solito a lunga scadenza, accreditando sui conti correnti detenuti presso di lei a nome delle banche la somma di denaro corrispondente al valore attuale di mercato di quei titoli. In pratica ciò che sta avvenendo è che la BCE sta letteralmente creando moneta per finanziare il suo massiccio programma di acquisto di titoli governativi.

Questo tipo di politiche vengono definite non convenzionali poiché solitamente le Banche Centrali, per raggiungere i loro obiettivi di politica economica, fissano direttamente il tasso d’interesse cercando di influenzare gli investimenti. In questo caso però i tassi sono bassissimi, alcuni addirittura negativi, quindi la BCE ha deciso che solo una vera e propria pioggia di moneta potrà risolvere la situazione. 

Con questa operazione, le istituzioni di credito, che si ritroverebbero con un grande quantità di riserve nei loro conti, dovrebbero essere più indotte ad aumentare l’offerta di prestiti agli agenti economici e, di conseguenza, favorire l’attività economica. Tale meccanismo, in apparenza molto semplice, presenta tuttavia aspetti molto discutibili sul piano teorico: se le banche infatti vanno considerate come vere e proprie imprese private, e come tali esse effettuano investimenti solo nel caso che le loro aspettative di profitto siano alte o perlomeno garantite, perché mai dovrebbero prestare denaro verso “l’economia reale” se sanno che essa è in grave difficoltà e probabilmente non potrà ripagare i proprio debiti?

In più c’è un punto che è stato riportato sotto i riflettori dalla crisi e dalle ultime pubblicazioni della Bank of England: le banche non prestano le riserve, non hanno bisogno di raccogliere depositi per poi concedere prestiti tramite il meccanismo della riserva frazionaria; esse quando concedono un prestito creano un conto corrente a nome del richiedente, espandendo così la quantità di moneta in circolazione (viceversa quando il prestito viene restituito la quantità di moneta si contrae).

L’idea secondo la quale il QE della Banca Centrale dovrebbe aumentare il credito bancario è basata su una visione determinista del funzionamento dell’economia, che sul piano dei risultati effettivi risulta essere decisamente insoddisfacente.

Ma andiamo con ordine; gli effetti positivi di questa misura potrebbero essere molteplici: oltre al risultato più evidente (maggiore denaro a disposizione del settore privato), l’incremento della domanda di titoli potrebbe indurrebbe ad un abbassamento del tasso d’interesse di mercato (la relazione tra interesse e prezzi dei titoli è inversa) abbattendo così i costi di finanziamento degli investimenti. Un terzo aspetto positivo verrebbe dall’effetto ricchezza provocato dal rialzo del valore dei titoli sui loro possessori, che potrebbero convincersi a spendere di più (sebbene, come sottolinea il professor Sergio Cesaratto, questo sia vero per gli Stati Uniti, dove il ceto medio possiede una discreta ricchezza finanziaria). Altro impatto positivo sarebbe dato dalla riduzione del rapporto debito/Pil, in quanto un maggiore tasso d’inflazione associato ad una maggiore quantità di moneta presente nell’economia diminuirebbe il tasso d’interesse reale, che è positivamente correlato alla variazione dello stock del debito sul PIL. Minori rendimenti consentirebbero inoltre un servizio del debito meno oneroso, permettendo maggiori spese da parte degli Stati. Un beneficio importante, infine, verrebbe dalla riduzione del valore della moneta, che darebbe un vantaggio competitivo alle esportazioni europee rispetto alle altre divise, grazie ad un tasso di cambio più favorevole.

In questo senso va vista la mossa di qualche settimana fa della Banca centrale svizzera di abbandonare la convertibilità fissa del Franco con l’Euro, timorosa che il suo cambio fosse trascinato troppo in basso rispetto al dollaro a causa di un Euro più debole (rendendolo meno attrattiva per i capitali esteri).

Tuttavia c’è da considerare che anche  se il peso del debito sarà meno presente per quei paesi che si trovano con una situazione finanziaria “a rischio”, e anche se la diminuzione dei tassi d’interesse sullo stock di debito potrebbe dare più ampi spazi di manovra di spesa per i Governi, rimane comunque il problema dei trattati Europei vigenti, in particolare quello di Maastricht e il pareggio di bilancio in costituzione che non permettono ai Governi di poter intervenire nell’economia utilizzando la spesa in disavanzo per creare occupazione. Infatti il mandato prioritario della Banca Centrale è ancora quello di combattere l’inflazione fissando il suo tasso obiettivo al 2%, e tutto ciò, come sottolineato dall’economista Emiliano Brancaccio, “indipendentemente (…) dal tasso di crescita o al tasso di occupazione dell’eurozona”.

Indubbiamente la mossa di Draghi modifica in parte il ruolo che la BCE ha svolto durante questa crisi, segnando (forse) il passaggio ad una nuova fase del processo di integrazione europea. Se l’esposizione verso gli Stati era stata alquanto limitata (tramite, ad esempio, il c.d. Meccanismo europeo di stabilità), o subordinata alla preventiva realizzazione delle riforme strutturali, ora il quadro cominciata a mutare.

Secondo Andrea Terzi, grazie al QE “la BCE è diventato un attore importante nel mercato dei titoli governativi e, come accade negli Stati Uniti, nella Gran Bretagna o nel Giappone, assicurando liquidità continua affinché questi vengano venduti, rimuovendo il rischio di default.” Di fatto, l’Eurotower con questa operazione si è trasformato in quello che Hyman Minsky definiva prestatore di ultima istanza (lender of last resort), facendo compiere quel salto qualitativo a lungo rimandato (probabilmente fin dai tempi del famoso annuncio sulla disponibilità ad intraprendere qualsiasi azione che garantisse la sopravvivenza della moneta unica) a causa dei veti dei Paesi mittleuropei. Mossa che segue anche alla constatazione che le misure di austerità, a lungo caldeggiate a Bruxelles, non hanno assicurato la ripresa né risolto i problemi per cui erano state pensate (in primis la riduzione del debito pubblico). Una scelta inevitabile anche a fronte della vittoria del fronte della sinistra guidato da Alexis Tsipras, il quale ha più volte ripetuto in campagna elettorale che non avrebbe rispettato le misure ideate dai funzionari della Troika (ossia Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea e, ovviamente, BCE), e che più volte ha chiesto un ruolo più attivo dell’istituto europeo.

Un effetto che potrebbe avere è su quelli che John Maynard Keynes chiamava gli “animalspirits” , di fatto Draghi con il lancio di questo programma sta dicendo agli attori privati: siamo pronti a garantite il valore di alcuni tipi di attività creando un pavimento sotto il quale non si può scendere. Questa dichiarazione implicita potrebbe invogliare qualcuno ad investire di più, ma non è detto che ciò accada. 

In piu non bisogna sottovalutare il rischio che la “facilitazione quantitativa” provochi effetti negativi rispetto alle previsioni di Draghi. Infatti sottraendo titoli al settore privato e portandoli nella “pancia” della BCE si sottrae all’economia la rendita garantita da suddetti titoli, rendita che adesso finirà alla Banca Centrale per non essere reinvestita. Ovviamente i bassi tassi d’interesse potrebbero ridurre questo effetto recessivo correlabile al varo del Qe, ma in un momento del genere nessun aspetto andrebbe sottovalutato.

Le élite Europee sembrano non capire che le semplici politiche monetarie che vogliono stimolare gli investimenti per dare un impulso alla crescita e all’occupazione in questo momento di recessione sono destinate a fallire. Quello di cui ha bisogno l’intera Eurozona adesso è di un programma di investimenti federali, un nuovo New Deal europeo, o per dirla come il nuovo ministro delle finanze Greco YanisVaroufakis un piano Marshall per il vecchio continente.

Solo con un forte stimolo fiscale che si preoccupi di garantire la piena l’occupazione si potrà creare un processo di crescita trascinato da salari crescenti- a partire da quelli più bassi- socialmente e finanziariamente sostenibile.

Lanciare dei programmi di occupazione garantita a livello europeo darebbe la possibilità di distribuire meglio il reddito, poiché questa politica fa crescere i salari dei settori lavorativi a più bassa retribuzione. Questo tipo di politiche hanno un impatto maggiore anche sulla crescita, poiché quello che dagli economisti viene definito moltiplicatore della spesa ha un effetto maggiore se i salari pagati vengono diretti verso chi ha una propensione al consumo più alta. Se vengono occupate le persone che sono senza lavoro e in condizione di indigenza (situazione sempre più frequente in questo periodo) si avrà un impatto del moltiplicatore più alto rispetto a stimoli fiscali che tendano semplicemente ad abbassare le tasse o a lanciare programmi d’investimento non mirati principalmente ad occupare chi si trova tagliato fuori dal mercato del lavoro. L’aumento dei consumi aumenterà le vendite e spingerà le imprese ad aumentare la produzione, così facendo aumenterà l’occupazione anche nel settore privato rendendo meno necessaria una forte spesa governativa per mantenere l’occupazione a livello massimo.

Un processo di crescita economica di questo tipo avrebbe la peculiarità di creare un ecosistema più stabile a livello finanziario, poiché sarebbe garantito un pavimento per i redditi da lavoro ( e indirettamente anche per i profitti, vista la stretta correlazione positiva tra spesa governativa e profitti delle imprese) in grado di evitare che gli agenti economici possano trovarsi in una posizione di esposizione all’indebitamento troppo rischiosa.

Se questo tipo di politiche non saranno lanciate al più presto, quello che il Vecchio Continente rischia è di sprofondare definitivamente nella morsa della deflazione, con una conseguente desertificazione dell’intero settore produttivo del sud-europa e una marginalizzazione delle aree più povere con alti tassi di povertà e criminalità mai visti prima in Occidente. In più senza una forte espansione dei bilanci governativi e con una domanda globale che ancora fatica a ripartire, gli unici stimoli alla crescita potrebbero venire da boom di investimenti, quindi da conseguenti bolle “settoriali” che finiranno poi per scoppiare e far ricadere l’Europa nel caos.

Chi oggi si definisce fermamente convinto che il modello sociale europeo e il sogno Spinelliano di costruzione di un Europa unita siano uno dei grandi progetti progressisti generati dalla rivoluzione culturale del secondo dopoguerra ha il dovere morale di dichiararsi a favore di questo tipo di politiche. Chi continua a pensare che si possa ancora lasciare esclusivamente all’agire privato la ripresa è un antieuropeista di fatto. Draghi incluso.

Francesco Ruggeri e Giuliano Thosiro Yajima


Articolo pubblicato su Il Moralista il 17 febbraio 2015