di OTTAVIO PLINI

MEDITAZIONE BREVE SULLA CONDIZIONE GIOVANILE E LA FORMAZIONE DELLA CLASSE DIRIGENTEIl Movimento Roosevelt, in base al principio del diritto alla piena occupazione quale diritto da inserire perfino in Costituzione, poco approva, credo di poter dire, un certo atteggiamento, una certa moda, sarebbe a dire ciò che consiste nel parcheggiare giovani nelle università, in particolar modo quelle umanistiche, per non doverli considerare nelle statistiche inerenti alla disoccupazione, per poi lasciarli senza una strada innanzi. È da sottolineare, io penso, che le università umanistiche dovrebbero forse preparare le classi dirigenti, quelle che, per dirla con Veblen, non sono schiavizzate dalla necessità di produrre (anche perché, con l’avvento delle macchine, sarà, con tutto il rispetto per essi, ma con felicità per loro e direi per la collettività, meno consistente, piuttosto svigorita, l’esigenza di esseri umani che producano): classi dirigenti che però avranno un altissimo dovere, quello di pensare, quindi di organizzare, ed in seguito, in democratica collaborazione con il resto della società, di attuare, una visione di respiro generale, non costretta alla sistemazione (ovverosia, come spesso succede, alla promessa della stessa) di piccole questioni; e questo perché in un mondo in cui la globalizzazione è divenuta un processo irreversibile – piaccia o meno com’è stata realizzata finora, e quel che non piace forse è proprio dovuto all’assenza di una strategia pensante – si formi, io almeno lo reputo necessario, una nuova classe di filosofi, o in qualsiasi altro modo li si voglia definire, che, sul modello dell’antichità classica, plasmino, in accordo con le istanze della comunità democraticamente intesa, un piano, serio e raffinato, del “dove andiamo”, se non del “chi siamo”. Questa che io suggerisco è una proposta che, per quanto per il momento succinta, si differenzia dall’oceano paludoso di arroganti letture sociologiche degli ultimi vent’anni circa: perché, vorrei dirlo anche un tantino provocatoriamente, reintroduce l’idea di una gerarchia, perlomeno relativa (avrei potuto chiamarla differenziazione). Insomma, laddove talune letture si accontentavano di esibirsi nella loro artificiosa onnicomprensività, la mia afferma chiaramente che, nel bene o nel male, esistono situazioni diverse, alcune sotto certi aspetti migliori o peggiori: e, a parere di chi scrive, meglio coglie l’enormità di sfumature del reale, valorizzandone le potenzialità espressive in ogni loro possibilità, senza imporre una visione prepotentemente unificante. Ora, le Università, almeno quelle italiane, ma non solo quelle certamente (ma questo esame non compete al Dipartimento Cultura, di cui chi scrive è vice-direttore, essendo detto Dipartimento da tempo disgiunto da quello Istruzione Università e Ricerca), appaiono terribilmente incapaci, profondamente non all’altezza del compito: da cui, poi, forse, il proliferare di situazioni associazionistiche di matrice culturale, che ha perfino spinto la Modern Moneraty Theory a proporre un Ministero per le Associazioni. Ma, se è vero quanto io vado sostenendo, sarebbe a dire l’inadeguatezza del sistema scolastico-universitario per la formazione tanto delle elite quanto di una coscienza civica comune di tutto il popolo, e ben tenendo presente che le vittime di questa situazione confusa, sarebbe a dire i giovani, saranno poi coloro cui, nel giro di una ventina d’anni, per forza di cose, si trasmetterà il quasi completo controllo della situazione, appare necessario rivolgerci con maggior vigore a loro: non soltanto perché i giovani rappresentano un bacino straordinario di votanti – sono tra i meno contenti, e non v’è al momento alcuna forza politica che si rivolga esplicitamente a loro; ma perché, se mi passano un’affermazione un po’ forte, questioni come per esempio quella europea ovvero monetaristica ovvero femminile (tutte essenziali, sia chiaro), ed altre varie questioni con le quali un po’ tutti amano trastullarsi, appaiono contingenti se consideriamo una massa di giovani che, lo si voglia o meno, in qualche decennio saranno piloti dell’umanità, saranno l’umanità, e vengono così spesso trattati come un problema sociale (ripeto, senza le precisazioni, le sfumature, le analisi, a mio avviso necessarie), se non addirittura soltanto come un gruppo di persone che vive al momento una situazione generalmente disagiata; gruppo che invece è stato a mio parere abbandonato ad uno stato di apatia, con tratti talora di confusione, talora di più tetra disperazione, ed ovviamente non idoneamente predisposto alla missione che naturalmente, perfino biologicamente, gli spetterà.

La presente meditazione non fornisce soluzioni, e, presumibilmente (nonostante le buone intenzioni dell’autore), non intendeva fornirne. Tuttavia, questo può e lo vuole, sia da pungolo ad una riflessione più attenta intorno ad una questione sovente così banalmente soprasseduta.

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